“Il viaggio del Papa in Cile ha trovato ampia eco nelle cronache e ormai si è in grado di trarre le prime somme sul significato della visita apostolica e sul messaggio che Giovanni Paolo II ha voluto diffondere in un Paese che da 14 anni patisce un’aspra dittatura militare. Un compito che non si presenta facile perché il mondo cattolico non può che plaudire alla lontana missione pontificia, che adempie al dovere dell’apostolato verso tutte le genti e, semmai appare tanto più urgente nei confronti di un popolo lacerato e sofferente. Questo consenso diffuso, cui sembra unirsi il compiacimento per le oceaniche folle adunata, per le accensioni della fede e per gli incontri commossi con tante componenti della società cilena, non dissipa tuttavia – negli animi di chi rifletta senza trasporti religiosi – alcune serie perplessità. La più grave è quella suscitata dal fatto che una visita del Papa non può celebrarsi senza intessere rapprti di benevola cortesia da parte dell’ospitato e di filiale devozione ostentata da parte del potere politico che impera nel Paese ospitante. Quando questo potere è tirannico, chiaramente repressivo e non di rado sanguinario, anche la cordialità più formale assume significato di consenso, o almeno di tolleranza comprensiva. La conseguenza, si voglia o non si voglia, è un rafforzamento della dittatura. Proprio perché una visita del Santo Padre non può ricondursi entro i confini del puro apostolato, quale esclusivo fatto religioso, ma investe l’intera struttura della società cui egli si rivolge, e tutti i bisogni e le speranze dela gente, così queste giornate cilene non possono sottrarsi a un giudizio «politico» sulle loro finalità e sul loro esito. L’immagine di un Wojtyla sorridente, affacciato al fianco di Pinochet al balcone del Palazzo presidenziale in cui Allende si uccise (o fu ucciso), vittima del colpo di Stato militare, opererà nell’immediato futuro come un puntello dell’oppressione. Quanto sia per giovare al generale non saprei dire, ma certo non servirà ad alimentare la fede dei cileni oppressi. Va da sé che questo rischio dev’essere stato ben presente nelle riflessioni del Papa e che, se egli ha ritenuto di doverlo affrontare, talune contropartite debbono essergli apparse promettenti, addirittura non rinunciabili. Una prima indicazione si trae dal paragone (enunciato all’atto dell’arrivo in Cile) tra il regime che pesa sul collo dei cileni e quello che opprime i polacchi. Giovanni Paolo II non dimentica mai la sua patria dolente, ma stavolta sembra si sia fatto trasportare troppo in là dal sentimento: dire che la dittatura di Santiago è più leggera e meno durevole di quella che impera a Varsavia non solo presuppone strumenti di misura reale configurabili, ma ignora il dato fondamentale della Storia. Il generale Jaruzelski, è un prodotto della seconda guerra mondiale, della spartizione di Yalta, della contrapposizione fra le superpotenze, mentre il generale Pinochet è solo uno dei tanti dittatori sudamericani generati dagli estremismi e dalle sopraffazioni che affliggono le antiche province dell’America Latina. Non c’è rapporto né paragone possibile fra il dramma centrale del nostro tempo (che è l’equilibrio del terrore atomico) e uno degli strascichi tardivi del colonialismo spagnolo. A restituire il Cile alla democrazia debbono bastare i cileni; per appagare i cattolici polacchi si dovrebbe ridisegnare la carta del mondo” (pag 227-229) (da un articolo del 5 aprile 1987) [Luigi Firpo, ‘Cattivi pensieri’, Salerno editrice, Roma, 1999]
La diplomazia della Chiesa verso il duemila: il calcolo della ragion di Stato
- Autore dell'articolo:Gianfranco Bozzano
- Articolo pubblicato:6 Mar 2025
- Categoria dell'articolo:ISC NEWS