‘Gianfranco Bianchi analizza accuratamente – avendo sempre sullo sfondo l’impotenza militare, la depressione e nello stesso tempo l’effervescenza popolare, l’azione clandestina dei partiti antifascisti – le varie congiure al vertice che confluirono nel 25 luglio 1943. In particolare quella di Grandi e dei fascisti dissidenti, e quella di Acquarone, di Badoglio e dei generali dello Stato Maggiore, fatta propria dal Sovrano. Uno dei pregi dello studio di Bianchi è quello di avere ricostruito lo stato di disfacimento progressivo dello stesso apparato fascista. L’esempio del senatore Cini, ministro delle Comunicazioni dal rimpasto del febbraio del ’43, che nell’ultimo Consiglio dei Ministri fascista, il 19 giugno (le isole di Pantelleria e di Lampedusa si erano arrese pochi giorni prima) chiese categoricamente a Mussolini una discussione generale sulla politica della guerra, rivendicando la responsabilità collegiale del Consiglio, non era un fatto isolato ed era la rivelazione di uno stato d’animo diffuso. Dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia e il suo rapido successo, la richiesta di provvedimenti radicali fu unanime. Non si spiegherebbe altrimenti la convocazione del Gran Consiglio e la richiesta unanime contenuta nell’ordine del giorno di Grandi ma anche in quelli di Scorza, segretario del partito e di Farinacci, che la Corona riassumesse il comando delle Forze Armate (delegato dal 1940 a Mussolini) proprio per significare in quel momento cruciale l’impegno di tutta la nazione personificata da Vittorio Emanuele III. 19 su 28 membri del Gran Consiglio votarono l’ordine del giorno Grandi. Il piano di Grandi era quanto di più rivoluzionario si potesse immaginare. Partendo dal presupposto che la guerra era perduta che per salvare la nazione dal disastro era necessario abbattere il regime, voleva offrire alla Corona, con il voto del Gran Consiglio, il mezzo costituzionale per rovesciare il fascismo all’ombra della legalità (il rispetto formale era l’assillo di Vittorio Emanuele III). Passata l’iniziativa nelle mani del re, egli avrebbe dovuto a suo parere nominare un governo di persone estranee al fascismo o addirittura appartenenti a correnti antifasciste, presieduto dal Maresciallo Caviglia. Un governo che intraprendesse subito trattative con gli anglo-americani (Grandi che per nove anni era stato ambasciatore a Londra, si offriva come segreto intermediario), e nello stesso tempo creasse alla frontiera alpina un ‘casus belli’ con la Germania, prevenendo con fulminea tempestività la sicura reazione dei tedeschi. Tutto ciò avrebbe facilitato l’accordo con gli Alleati. Ma il re operò diversamente e la mattina del 25, Grandi seppe che era stato nominato Presidente del Consiglio il maresciallo Badoglio. In effetti la congiura di Grandi anticipò di un solo giorno l’effettuazione della congiura dei militari e del sovrano, anche se essa fu egualmente importante sia perché dette un appiglio giuridico al rovesciamento di Mussolini, sia perché paralizzò il partito fascista. Nel momento stesso in cui offrì al re il mezzo legale per sostituire Mussolini, Grandi si trovò così superato dagli avvenimenti. Né nel sovrano, né in Badoglio e lo Stato maggiore si trova traccia di un qualsiasi motivo ideologico. Militari e empirici si muovevano su un piano di puro pragmatismo: la guerra era perduta e il solo ostacolo a chiuderla era Mussolini. Lo studio di Bianchi permette di cogliere assai meglio che per l’innanzi il ruolo decisivo giocato dal re il 25 luglio. Badoglio aveva l’appoggio dello Stato maggiore ed anche del re, insensibile ai precedenti fascisti del maresciallo. Sta di fatto che sul nome di Badoglio confluirono anche gli appoggi e le speranze di esponenti dell’antifascismo. Si può rimanere stupiti che Bonomi non abbia avanzato sostanziali riserve sul nome del maresciallo ma occorre riconoscere che la possibilità d’azione dell’antifascismo monarchico era scarsa e legata alle decisioni del sovrano. Badoglio concordò così la creazione di un governo con Bonomi vicepresidente e Croce e Orlando in posizione eminente, ma a questo punto Vittorio Emanuele III rifiutò categoricamente un ministero politico, imponendo una soluzione tecnica. Tutto quanto rimase del mondo politico antifascista fu il proclama che Orlando scrisse per Badoglio con le sciagurate parole della “guerra continua” e dell’Italia che “mantiene fede alla parola data” che attribuivano all’Italia la responsabilità dell’alleanza con la Germania proprio quando era possibile e anzi doveroso tentare di rovesciarla sul regime abbattuto. Grandi insorse contro quell’errore, e furente si scaglierà contro il carattere “balcanico” e “sudamericano” del colpo di stato militare e più ancora contro l’inerzia del governo che lasciava passare senza agire giorni preziosi, mentre le divisioni tedesche varcavano indisturbate i confini e occupavano il paese. L’attendismo di Badoglio e più ancora quello del sovrano minavano veramente le già scarse possibilità di trarre l’Italia dalla guerra” (pag 122-126) [Luigi Lotti, ’25 luglio. Crollo di un regime (by Gianfranco Bianchi, Editore Mursia, 1963). (Rassegna di lettere e arti, Libri di storia) (riassunto)]