“Nietzsche ammetteva, come poi (Pareto) (7), a proposito delle ‘élites’ al potere, un ricambio tra la classe lavoratrice e quella «eletta»; in ogni caso la giustificazione di questa forma di ineguaglianza sociale era trovata nella necessità che la volontà di potenza potesse essere espressa soltanto dall’aristocrazia per evitare la dispersione di inutili conflitti tra le classi. La concezione di Nietzsche rispondeva quindi al bisogno di un profondo ordine sociale. È interessante notare che lo sviluppo delle attività creative e intellettuali fosse connesso alla disuguaglianza e alle caste. Proprio perché così esplicito nell’affermazione della disuguaglianza, Nietzsche aveva una visione al tempo stesso realistica e ‘antiborghese’ delle condizioni sociali del lavoro; egli non concepiva il lavoro come una «forza plasmatrice del mondo ed educatrice dell’uomo» (8), ma solo come un affanno, un peso e un’attività che distoglieva dalla solitudine e dalla contemplazione. Da tutto ciò dovevano essere esentate le classi dominanti; ma le sue riflessioni sul lavoro come asservimento alle macchine e svilimento delle qualità umane si estendevano anche alle classi subordinate: «Povero, lieto e indipendente! – queste cose insieme sono possibili; povero, lieto e schiavo – anche queste sono possibili, e, della schiavitù di fabbrica, non saprei dire nulla di meglio agli operai, posto che essi non sentano in generale come ‘ignominia’ il venire in tal modo adoperati, ed è quel che succede, come ingranaggi di una macchina e, per così dire, come accessori dell’umana inventività tecnica. È obbrobrioso credere che attraverso un più elevato salario la ‘sostanza’, voglio dire la loro impersonale condizione servile, possa essere eliminata» (9). Queste espressione che in qualche modo ricordano il discorso di Marx sull’alienazione (10), non devono trarre in inganno: la prospettiva con cui Nietzsche, nei pochi aforismi dedicati al problema, guardava alle condizioni della classe lavoratrice era quella non d’emancipazione ma dell’ ‘otium’, che egli riteneva indispensabile per l’affinamento delle qualità della casta dirigente. Ancora una volta però, attraverso l’ottica ristretta del suo spirito aristocratico, Nietzsche considerava le condizioni sociali del suo tempo con maggiore lucidità di quegli scrittori populisti, apologeti del lavoro, che vedevano nel lavoro «l’unica legge del mondo» (11)” (pag 120-122) [Piero A. Milani, ‘Potere e disuguaglianza in Nietzsche’ in ‘Saggi di storia del pensiero politico’, Giuffré editore, Milano, 1974] [(7) Sul rapporto tra Nietzsche e Parto , non solo sulla questione delle ‘èlites’, ma anche per quanto riguarda le ideologie, rimandiamo a Max Scheler, ‘Sociologia del potere’, ‘Introduzione’, Roma, 1966 e a ‘Ideologia e Utopia’ di K. Mannheim (…); (8) Cfr. K. Löwith, ‘Da Hegel a Nietzsche’, cit, p. 426; (9) ‘Aurora’, cit., p: 152, afor. 206; (10) Cfr. K. Löwith, ‘Da Hegel a Nietzsche’, cit, pp. 233 sgg; (11) «Lavoro! Tenete presente, signori, che esso costituisce l’unica legge del mondo. La vita non ha alcun altro scopo, alcuna altra ragione di esistenza, e noi tutti nasciamo soltanto per dare il contributo nella nostra parte di lavoro e per poi scomparire»; questa affermazione di Emile Zola è riportata in K. Löwith, op. cit., p. 430]
Le riflessioni di Nietzsche sul lavoro come asservimento alle macchine
- Autore dell'articolo:Gianfranco Bozzano
- Articolo pubblicato:3 Ott 2024
- Categoria dell'articolo:ISC NEWS