Valletta e lo sciopero del 5 marzo 1943 a Mirafiori

“I rapporti di Agnelli e Valletta con la Confindustria non erano mai stati facili. Anche in questo la Fiat si considerava un’azienda «a parte». Nel caso specifico, la distanza si accentuò fino alla rottura. Valletta si mosse con abilità tra la resistenza della Confindustria e la forza rinascente del movimento operaio. Come alcuni dei dirigenti che gli stavano vicino, coglieva il significato politico dello sciopero che si stava preparando ma capiva anche che la solidarietà operaia si coagulava su motivazioni essenzialmente economiche. Affrontò quindi la questione come il capo di un’azienda che affronta una vertenza sindacale: calcolando i limiti della trattativa. Inizialmente, comunque, anche Valletta non aveva ancora misurato la consistenza organizzativa del movimento operaio; non prevedeva che la lotta operaia avrebbe raggiunto tanta intensità. (…) Di ritorno da Roma, la mattina del venerdì 5 marzo, Valletta decide di pubblicare in tutti gli stabilimenti Fiat la circolare del Ministero delle Corporazioni, nel testo del 13 gennaio. Vi aggiunge una precisazione: nell’indennità di sfollamento saranno compresi gli anticipi già percepiti. Gli scioperi cominciarono quel giorno stesso, alle dieci del mattino, ora di prova per l’allarme aereo, al suono delle sirene. Non fu certamente la pubblicazione della circolare a determinare l’ondata della lotta operaia, che era già predisposta da tempo. Ma il contenuto «provocatorio» era evidente. Da quel momento Valletta cominciò ad agire per conto proprio, indipendentemente dalle linee confindustriali. Pur essendo al corrente di ciò che sarebbe accaduto, Valletta e tutta la direzione della Fiat furono colti di sorpresa dalle dimensioni e dalla qualità politica degli scioperi, che nel giro di una settimana investirono tutti gli stabilimenti Fiat e tutte le più importanti fabbriche di Torino, per poi estendersi ad altri complessi del triangolo industriale. (…) Valletta provò a spiegare che si trattava di una vertenza salariale, complessa e difficile, che poteva essere tuttavia assorbita e ammortizzata dagli industriali e dal regime. Viene convocato ancora una volta a Roma dal Duce, l’11 marzo. Ma, al di là dei termini specifici della controversia, vi è ormai una divergenza sostanziale; Valletta è il solo che, molto a malincuore, ammetteva che il movimento operaio era una forza organizzata sviluppatasi su una base oggettiva di estremo, talora disperato, disagio economico di massa; ed era anche il solo a credere che gli operai torinesi non erano un’accozzaglia di disfattisti, come si ostinavano a ripetere Mussolini, i suoi ministri e sottosegretari. Dal clima dei primi giorni di sciopero, Valletta aveva capito che l’iniziativa operaia non era il frutto della propaganda e della sobillazione, anche se così si esprimeva con qualche stretto collaboratore; il movimento operaio era una forza reale organizzata che non poteva essere neutralizzata con la militarizzazione, nella quale egli stesso aveva creduto fin dall’inizio della guerra. Si era quindi adoperato ad evitare che scattassero alcuni piani di attacco in forze contro le fabbriche torinesi. Il dispiegamento di mezzi militari aveva assunto proporzioni ingenti, ma nessuna forza di polizia aveva osato entrare negli stabilimenti in sciopero” (pag 96-97-98) [Piero Bairati, ‘Vittorio Valletta’, Utet, Torino, 1983]