“Il problema della milizia rinvia dunque al problema dello Stato. Ma noi sappiamo già che il Machiavelli non si pone problemi astratti e che, quando egli affronta il problema dello «Stato», è alla realtà italiana che il suo pensiero è essenzialmente rivolto. Non deve perciò sorprenderci se nella chiusa dell’ ‘Arte della guerra’, egli, come già nel ‘Principe’, torni a concentrare la propria attenzione alle cose italiane. È possibile che quell’occasione, che non si è presentata a Fabrizio Colonna, si presenti a lui o ad altri per l’avvenire? Si può legittimamente sperare che si realizzino nella penisola, o in una parte di essa, quelle condizioni politiche che costituiscono il presupposto dell’auspicata riforma militare? La risposta che Fabrizio Colonna dà nella conclusione del dialogo a questi interrogativi volge alla negazione. In Italia – egli argomenta – non tratta di «saper governare un esercito fatto» ma di «farlo». Con i mercenari ciò non è possibile perché in siffatta «materia» (ancora la terminologia del ‘Principe’) non si può «imprimere alcuna buona forma». Ma non lo si può neppure con gli italiani perché, come soldati, essi sono divenuti il «vituperio del mondo». Di ciò «i populi non ne hanno colpa, ma si bene i prìncipi loro», con la loro «ignavia» (…)” (pag 31) [Giuliano Procacci, ‘Niccolò Machiavelli’, Utet, Torino, 1969] [nota: “(….) La sosta di Fabrizio a Firenze, nel settembre 1516 (il capitano tornava a Roma dopo la conclusione della guerra franco-spagnola in Lombardia), e una sua visita agli Orti Oricellari, allora già frequentati da M., danno spunto alla scelta di fare del condottiero il protagonista dei dialoghi sull’Arte della guerra e il portavoce del pensiero militare dell’ex Segretario. Qui la figura del C. storico emerge solo in controluce, per accenni indiretti, ma in luoghi ‘rilevanti’ del trattato: è Cosimo Rucellai a rivolgerglisi osservando come «nella guerra, la quale è l’arte vostra e in quella che voi siete giudicato eccellente, non si vede che voi abbiate usato alcuno termine antico, o che a quegli alcuna similitudine renda» (I 36); il C. machiavelliano risponde dapprima negando di avere esercitato la guerra come professione (il che contraddice la realtà storica, ma è qui funzionale all’argomentazione a favore di un esercito ‘civile’): ‘E perché voi allegasti me, io voglio essemplificare sopra di me; e dico non aver mai usata la guerra per arte, perché l’arte mia è governare i miei sudditi e defendergli e, per potergli defendere, amare la pace e saper fare la guerra. E il mio re non tanto mi premia e stima per intendermi io della guerra, quanto per sapere io ancora consigliarlo nella pace (I 108-09)’. Più storicamente fondata la risposta che giunge nell’ultimo libro, laddove il condottiero evidenzia l’impossibilità per lui, nelle sue condizioni di subalternità e scarso potere personale, di tentare di attuare un simile trasferimento al presente degli antichi ordini. (…)” [f. Treccani, ‘Colonna, Fabrizio’, Bibliografia: F. Petrucci, Colonna Fabrizio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 28° vol., Roma 1982]